L’escavazione dei fondali così come lo scarico in mare dei materiali derivatine rappresenta un’attività di notevole impatto ambientale, atteso il rilevante rischio di diffusione dei contaminanti così raccolti e presenti nei sedimenti dei fondali, in ragione delle attività industriali e commerciali che incidono sulle aree portuali.
Così afferma la Cassazione Sez. III n. 45844 del 12 novembre 2019.
Ciò significa che la fattispecie dello “spostamento” di sedimenti in ambito portuale, di cui al combinato disposto degli artt. 1 comma 2 lett. a) e 2 lett. f) del DM 173/2016, deve essere costruita come descrittiva di un’attività connotata dal ridotto impatto ambientale.
Solamente in tal senso si giustifica l’esclusione dal regime autorizzatorio di cui all’art. 109 comma 2 Dlgs. 152/06 il quale è contrassegnato da una complessa procedura di progettazione, delimitazione delle aree interessate, individuazione delle quantità di materiali movimentati, campionamento e analisi delle zone di escavo, delineata con il citato DM 173/2016.
Di conseguenza il carattere“eccezionale” della previsione, espressivo della ratio ispiratrice di individuare e delimitare solo casi in cui sia altamente probabile l’esclusione di rischi di alterazioni ambientali, ne impone altresì una interpretazione rigorosamente restrittiva.