Esiste nella normativa italiana una definizione di rifiuto tessile?

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Non è rintracciabile nella normativa italiana una specifica definizione di “rifiuto tessile”.

L’Allegato D alla Parte Quarta del TUA, recante l’“Elenco dei rifiuti istituito Decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000”, così come appianato dalla Decisione 2014/955 del 18 dicembre 2014, indica diverse tipologie di rifiuto riconducibile ai materiali tessili tra i quali:

  • i rifiuti da materiali compositi (fibre impregnate, elastomeri, plastomeri) [Codice CER 040209];
  • i rifiuti da fibre tessili grezze [Codice CER 040221];
  • i rifiuti da fibre tessili lavorate [Codice CER 040222];
  • gli imballaggi in materia tessile [Codice CER 150109];
  • i prodotti tessili [Codice CER 191208];
  • l’abbigliamento [Codice CER 200110];
  • i prodotti tessili [Codice CER 200111].

Ebbene, oltre agli indumenti usati, agli accessori di abbigliamento, ai prodotti tessili domestici per cucina, bagno e letto, ai tessili per l’arredo, ecc. (che costituiscono i prodotti a fine vita), nella categoria in parola sono ricompresi parte dei rifiuti esitanti dai processi produttivi del settore industria tessile1

Conseguentemente, sul piano sostanziale si possono distinguere due macro categorie di rifiuti tessili, ovvero:

- i materiali che provengono dalla produzione di filati e tessuti, dai processi di confezionamento dei capi di abbigliamento e dal retail. Si tratta, di rifiuti post-industriali, ossia, i ccdd. scarti “pre-consumo”.

All’interno di questa categoria è possibile tracciare un elenco schematico distinguendo, dal punto di vista dei rifiuti post-industriali, gli scarti primari e secondari2.

- Gli scarti tessili provenienti prevalentemente dall’utilizzo domestico - che rappresentano i ccdd. scarti “post consumo”.

Invero, la vita media di un capo di abbigliamento si aggira attorno ai tre anni, dopo i quali viene dismesso. In tali situazioni è piuttosto agevole ricondurre la dismissione con il concetto di rifiuto in quanto il detentore “se ne disfa” terminando il loro ciclo di vita negli impianti di recupero tessile o in discarica.

Qualora, invece, gli abiti vengano immessi nei circuiti della beneficenza (vendite organizzate, raccolte delle parrocchie, donazioni) oppure vengano ceduti ai mercatini dell’usato, non sussiste la medesima volontà di dismetterli, ma al contrario vi è l’intenzione di reimmetterli in un diverso ciclo di consumo, con la conseguenza che non si può parlare di rifiuti – e neanche di sottoprodotti – ma di vere e proprie merci, con un valore economico per chi le vende e per chi le acquista.

Nel d.lgs n. 152/06 non è presente una definizione specifica di “rifiuto tessile”, ma vi sono soltanto due riferimenti ai rifiuti tessili negli Allegati al Codice. Oltretutto un solo riferimento è esplicito nell’Allegato D alla Parte Quarta del TUA (recante l’Elenco dei rifiuti istituito conformemente alla Decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000), mentre l’altro riferimento è all’industria tessile e si ritrova nell’Allegato III “Emissioni di composti organici volati” alla Parte Quinta del Codice nella “Parte II - Attività e soglie di consumo di solvente”.

In conclusione il TUA non contiene alcuna definizione di “rifiuto tessile”, né specifiche norme ad esso dedicate, tuttavia ai rifiuti c.d. tessili si applicano le norme della Parte Quarta del Codice dell’Ambiente così come per tutti i rifiuti non avendo una regolamentazione specifica indicata.


1 Studio di settore sul fine vita dei prodotti tessili, Assosistema Servizi s.r.l., marzo 2015.

2 Secondo la distinzione operata dal Dipartimento per lo sviluppo del Tessile del Fashion Institute of Tech-nology nell’ambito del programma “Industrial Waste Recycling and Prevention (INWRAP)” patrocinato nel 2001 dall’EPA, l’Agenzia di Protezione Ambientale degli Stati Uniti.

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