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In tema di bonifiche, gli articoli 242, comma 1 e 244, c. 2 del D.Lgs n. 152/06 stabiliscono che, riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza (d’emergenza o definitiva), di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell’inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
Si esclude la possibilità per l’Amministrazione di imporre al proprietario non responsabile della contaminazione misure di messa in sicurezza d’emergenza o di bonifica del sito inquinato e si nega che il proprietario, subentrato nel possesso dell’area contaminata, subentri automaticamente pure nei connessi obblighi, in base ad una mera responsabilità da posizione per la semplice esistenza del relativo onere reale sullo stesso sito.
A fronte dei casi in cui non sia possibile stabilire un nesso causale tra l’operatore e l’inquinamento (casi di inquinamento diffuso e storici), la normativa nazionale stabilisce l’esclusione dalla disciplina.
La giurisprudenza comunitaria riconosce, tuttavia, il ricorso a presunzioni in ordine all’esistenza del nesso di causalità sul fondamento di indizi plausibili1.
Un corposo filone giurisprudenziale ammette che l’imputazione dell’inquinamento a un determinato soggetto può avvenire sia per condotte attive che per condotte omissive e la relativa prova può essere data in forma diretta o indiretta. Il fondamento dell’imputazione può essere rintracciato anche alla stregua di presunzioni semplici ex art. 2727 c.c., prendendo in considerazione elementi di fatto da cui si traggano indizi gravi, precisi e concordanti. Sulla base di tali indizi deve risultare verosimile che si sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori2. Da ultimo il Tar Puglia, Lecce, Sez. I, del 9 maggio 2019, n. 755.
Le presunzioni rappresentano un mezzo per dedurre dal fatto noto quello ignoto, essendo sufficiente che quest’ultimo sia considerato mera conseguenza del primo, alla stregua di un criterio basato sulla normalità dei casi e seguendo un calcolo probabilistico fondato, per l’appunto sull’id quod plerumque accidit ex art. 2727.
Si tratta della regola del processo civile del “più probabile che non” o della preponderanza dell’evidenza.
Esiste, tuttavia, l’opposto filone che propende per l’applicabilità del criterio della preponderanza dell’evidenza, reclamando un accertamento più rigoroso che implichi un’adeguata istruttoria procedimentale e che si traduca nella ricerca di prove certe e inequivoche. L’accertamento non può basarsi su mere presunzioni, ma si esige la prova “al di là di ogni ragionevole dubbio”3.
Il Ministero dell’Ambiente nella circolare n. 1495 del 2018 ha preso posizione netta per l’applicabilità della regola del processo civile: “nell’ambito delle attività di verifica e di indagine svolte dalla pubblica amministrazione per l’individuazione del soggetto responsabile, per ciò tenuto all’attuazione degli interventi di bonifica, trova applicazione la regola probatoria, codificata nel processo civile”.
In conclusione il Ministero dell’ambiente e un filone giurisprudenziale dominante ammettono che il fondamento dell’imputazione possa essere rintracciato anche alla stregua di presunzioni semplici ex art.2727 c.c., prendendo in considerazione elementi di fatto da cui si traggano indizi gravi, precisi e concordanti