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Se rifiuto è “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi” potrebbe qualificarsi come tale un materiale che, non più idoneo a soddisfare le finalità cui era originariamente destinato, sia tuttavia dotato di un certo valore economico, tanto da essere ceduto a titolo oneroso?
Nello specifico ci si riferisce al materiale ferroso oggetto della attività dei c.d. ferraioli.
Tale materiale è classificabile come rifiuto? Il trasporto dello stesso senza la relativa autorizzazione può configurare l’illecito di attività di gestione di rifiuti non autorizzata?
Ai suddetti quesiti ha fornito risposta la Corte di Cassazione nella recente sentenza n. 9052 del 6 marzo 2020, nella quale è stata chiamata a pronunciarsi nuovamente sul rapporto tra “materiali con valore economico” e “qualifica di rifiuto”.
Nel caso affrontato dalla Suprema Corte nella suddetta sentenza, invero, un soggetto privato era stato condannato nel giudizio di merito, alla pena di 4.000,00 euro di ammenda, per il reato di cui all’art. 256 (attività di gestione di rifiuti non autorizzata), comma 1 lett. a) del TUA per aver effettuato attività di trasporto di rifiuti non pericolosi (per l’appunto materiale ferroso e plastica), in mancanza della prescritta autorizzazione.
L’imputato, pertanto, presentava ricorso in Cassazione sostenendo la violazione dell’art. 256 comma 1 lett. a) del TUA, nonché la mancata applicazione dell’art. 184-ter (cessazione della qualifica di rifiuto) del TUA, in quanto tale materiale non doveva considerarsi rifiuto dato il valore economico dello stesso e l’intenzione di cederlo a titolo oneroso e di conseguirne un vantaggio economico.
Gli Ermellini tuttavia, oltre a non ritenere fondate le osservazioni sulla difesa circa il valore economico di tale materiale, che appariva manifestamente deteriorato e circa l’attività di commercio svolta dall’imputato, non supportata da alcun elemento probatorio, hanno ribadito un principio già affermatosi nella giurisprudenza di legittimità.
La Corte, invero, ha sottolineato che: “quand’anche il materiale in esame avesse avuto davvero un valore economico, potesse esser compravenduto e ciò costituisse il fine (non provato) dell’attività dell’imputato, non se ne potrebbe comunque escludere la qualifica di rifiuto, una volta acquisita. Al riguardo, infatti, deve ribadirsi il costante e condiviso indirizzo in forza del quale la natura di rifiuto, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 184-bis), invero ravvisabili nel caso di specie, non vien certo perduta in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile all’autorità (oppure creato proprio a tal fine), in questo caso sub specie di cessione a titolo oneroso, come se il negozio giuridico riguardasse l’oggetto stesso della produzione e non - come in effetti proprio un rifiuto. Ciò, peraltro, a prescindere dal “valore” economico o commerciale di questo, specie nell’ottica di chi in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di natura privatistica […]”.
La Corte, inoltre, continua affermando che come già sostenuto in altre pronunce (cfr. ex multis sentenze n. 5442 del 15 dicembre 2016 e n. 15447 del 20 gennaio 2015), “[…] nell’indagine in esame - volta all’accertamento dell’effettiva natura di rifiuto - si deve evitare di porsi nella sola ottica del cessionario del prodotto, e della valenza economica che allo stesso egli attribuisce (sì da esser disposto a pagare per ottenerlo), occorrendo, per contro, verificare “a monte” il rapporto tra il prodotto medesimo ed il suo produttore e, soprattutto, la volontà/necessità di questi di disfarsi del bene”.
In conclusione, quindi, la natura di rifiuto, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 184-bis), non viene meno in ragione di un mero accordo di cessione a titolo oneroso e dell’eventuale “valore” economico o commerciale del materiale in questione.