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La Cassazione1 è tornata recentemente a pronunciarsi sul deposito temporaneo delimitandone i confini in ragione dei requisiti che la disciplina impone.
Come, noto, infatti per deposito temporaneo ai sensi dell’art. 1832 lett. bb) del D. Lgs. n. 152/2006 si indica ogni raggruppamento di rifiuti, effettuato prima della raccolta, nel luogo in cui sono stati prodotti, quando siano presenti precise condizioni relative:
- alla quantità e qualità dei rifiuti;
- al tempo di giacenza;
- all’organizzazione tipologica del materiale;
- al rispetto delle norme tecniche elencate nel d.lgs. n. 152/2006.
Il deposito temporaneo può, dunque, definirsi tale solo se rispetta le condizioni specificatamente individuate dal legislatore e, dunque, si colloca al di fuori della normativa sui rifiuti (salvo gli adempimenti in tema di registri di carico e scarico e del divieto di miscelazione).
Diversamente, in difetto di uno soltanto dei menzionati requisiti il deposito non può ritenersi temporaneo e si pone al limite di ulteriori e diverse classificazioni cui la giurisprudenza ha, nel corso degli anni, fatto esplicito riferimento che necessitano, si evidenzia, di preventiva autorizzazione.
Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha chiaramente individuato tali fattispecie in ragione - oltre che dell’assenza delle condizioni del deposito temporaneo – in particolare della finalità insita nel deposito.
Segnatamente, si possono, quindi, individuare in ragione dell’assenza dei presupposti validi per la costituzione di un deposito temporaneo:
- deposito preliminare, “se il collocamento di rifiuti è prodromico a un’operazione di smaltimento che, in assenza di autorizzazione o comunicazione, è sanzionata penalmente dall’art. 2563, comma 1 del d. lgs. n. 152/2006”;
- messa in riserva, “se il materiale è in attesa di una operazione di recupero che, essendo una forma di gestione, richiede il titolo autorizzativo, la cui carenza integra gli estremi del reato previsto dall’art. 256, comma 1 del d.lgs. 152/2006”;
- deposito incontrollato o abbandono, “quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero. Tale condotta è sanzionata come illecito amministrativo, se posta in essere da un privato e come reato contravvenzionale, se tenuta da un responsabile di enti o titolare di impresa”;
- discarica abusiva, “quando invece l’abbandono dei rifiuti è reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi”.
Tutte le suddette opzioni ricorrono, dunque, differentemente in ragione delle attività che con i rifiuti presenti nel deposito si ha intenzione di svolgere, ovvero nel caso di deposito preliminare, se il collocamento di rifiuti è prodromico ad una operazione di smaltimento; di messa in riserva, quando è in attesa di una operazione di recupero; di deposito incontrollato o abbandono, quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero e, da ultimo, di discarica abusiva, se l’abbandono dei rifiuti è reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi.
La Cassazione rammenta inoltre che l’onere della prova in ordine alla sussistenza delle condizioni fissate dall’art. 183 del d.lgs. n. 152/2006 per la liceità del cd. deposito controllato o temporaneo, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria del deposito temporaneo rispetto alla disciplina ordinaria.
In conclusione, qualora il deposito non rispetta tutte le condizioni previste dal legislatore all’art. 183, lett. bb) del D. Lgs. n. 152/2006 non può definirsi temporaneo e, pertanto, a seconda delle attività cui sono destinati i rifiuti, o meglio, in ragione del fine per cui si è costituito il deposito si può alternativamente parlare di deposito preliminare, messa in riserva, deposito incontrollato o abbandono e discarica abusiva.