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La disciplina 231 prevede l’applicazione della sanzione interdittiva accanto a quella pecuniaria solo nel caso in cui questa sia prevista dalla normativa.
L’art. 452-quaterdecies c.p., che ha sostituito il previgente art. 260 del TUA, tramite l’art. 3, comma 1, lett. a), D.Lgs. 1° marzo 2018, n. 21, a decorrere dal 6 aprile 2018, stabilisce che:
“Chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni.
Se si tratta di rifiuti ad alta radioattività si applica la pena della reclusione da tre a otto anni.
Alla condanna conseguono le pene accessorie di cui agli articoli 28, 30, 32-bis e 32-ter, con la limitazione di cui all’articolo 33.
Il giudice, con la sentenza di condanna o con quella emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, ordina il ripristino dello stato dell’ambiente e può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente.
È sempre ordinata la confisca delle cose che servirono a commettere il reato o che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Quando essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca”.
Detta norma pertanto sanziona la condotta abituale tenuta da colui il quale ha tratto un ingiusto profitto dalle operazioni e con l’allestimento di attività continuative per gestire abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti.
La norma in parola è presente altresì nell’art. 25-undecies del D.Lgs. 231/2001 il quale prevede, al comma 2 lett. f), l’applicazione della sanzione pecuniaria “da trecento a cinquecento quote, nel caso previsto dal comma 1 e da quattrocento a ottocento quote nel caso previsto dal comma 2”.
La norma inoltre, prevede al comma 7 l’applicazione delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9 comma 2 del decreto (quali: l’interdizione dall’esercizio dell’attività; la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi) per una durata non superiore a sei mesi.
Non basta, il successivo comma 8 dell’art. 25-undecies del Decreto 231 prevede che: “Se l’ente o una sua unità organizzativa vengono stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati di cui all’articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 [ndr oggi 452-quaterdecies c.p.], e all’articolo 8 del decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 202, si applica la sanzione dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività ai sensi dell’art. 16, comma 3, del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231”.
Pertanto laddove l’ente accusato del reato di cui all’art. 452-quaterdecies c.p. sia stabilmente finalizzato alla commissione del reato addebitato, allora troverà legittimità la sanzione interdittiva definitiva di cui all’art. 16 comma 3 del D.Lgs. 231/2001.
Il comma 3 dell’art. 16 obbliga dunque il giudice a comminare l’interdizione dallo svolgimento dell’attività, trovandosi di fronte ad un’impresa rea non di colpa di organizzazione ma di un vero e proprio dolo in tal senso.
In tale caso il giudice dovrà accertare che lo scopo illecito sia più importante rispetto agli altri scopi perseguiti dall’ente, senza che l’ente possa realizzare alcuna condotta riparatoria di cui all’art. 17 del decreto 231 per evitare tale verdetto.
L’art. 452-quaterdecies c.p. comporta per l’ente una sanzione pecuniaria distinta in base alla pericolosità o meno del rifiuto, inoltre il giudice potrà altresì comminare la sanzione interdittiva in quanto prevista dal legislatore nell’art. 25-undecies del d.lgs. 231/2001.
Laddove poi l’azienda sia stabilmente utilizzata per finalità illecite allora il giudicante sarà obbligato ad applicare la sanzione interdittiva definitiva che impedisce la prosecuzione dell’attività.