Quali sono le criticità del DDL Terra Mia?

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Posto che “quella dei sottoprodotti è una disciplina che prevede l’applicazione di un diverso regime gestionale in condizioni di favore”, viene concordemente sancito dalla giurisprudenza che “l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza di tutte le condizione di legge incombe comune su colui che le invoca”1.

Quanto all’incombenza dell’onere della prova in capo al soggetto che intende avvalersi della disciplina derogatoria relativa ai sottoprodotti, questa è, dunque, comprovata dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Ed invero, in una recente sentenza la Cassazione Penale2  si è pronunciata di nuovo sulla qualificazione di sottoprodotto, questa volta in relazione alla gestione di rifiuti plastici spediti in Cina.

Il Tribunale aveva, infatti, condannato l’imputato per il reato di cui all’art. 256 del D. Lgs n.152/06 perché in mancanza delle prescritte autorizzazioni, iscrizioni e comunicazioni, recuperava, trasportava e commercializzava rifiuti plastici non pericolosi, immettendoli all’interno del container destinato alla Cina.

Il DDL “Terra Mia” ha tentato di innovare la disciplina ambientale sotto vari profili, soprattutto prevedendo un inasprimento delle misure sanzionatorie previste dal TUA. Altri ambiti che sono interessati dal tentativo di riforma, sono le norme in materia di responsabilità amministrativa degli enti (D. Lgs. 231/2001) ed il Codice Antimafia (D. Lgs. 159/2011), relativamente all’applicazione di misura preventive per chi commetta reati ambientali.

Nelle intenzioni del precedente Ministro dell’Ambiente, lo scopo di questo Disegno di Legge sarebbe dovuto essere non soltanto quello di aumentare le sanzioni per chi commetta reati in materia di ambiente ed in tema di ecomafie, ma anche di offrire dei rimedi per quelle imprese che cagionino un danno ambientale. La riforma in oggetto però non pare ben scritta, ed anzi si segnala per la sua disorganicità, perché cerca di intervenire su discipline diverse fra loro. Quello che soprattutto manca e non si avverte, è la presenza di un unico filo conduttore che sia in grado di tenere insieme queste differenti normative, evitando così di ingenerare confusione nelle leggi già esistenti.

Il primo esempio di quanto detto fino a qui, è ben rappresentato dal meccanismo estintivo contenuto nell’articolo 318-bis e seguenti del TUA. Tali norme dispongono che il trasgressore che abbia commesso una delle ipotesi contravvenzionali previste nel D. Lgs 152/2006, possa estinguere il reato mediante il pagamento di una semplice sanzione amministrativa e la dimostrazione di avere adempiuto alle prescrizioni fatte dall’organo che ha accertato l’illecito. Il DDL all’articolo 9 prevede un’aggiunta al primo comma dell’articolo 318-ter TUA, che consenta all’organo accertatore di prescrivere disposizioni ben determinate volte ad eliminare la situazione di carenza che ha portato all’integrazione della fattispecie di reato da parte dell’ente.  

I problemi di questa novellata normativa sono molteplici, in primis perché sembra prevedere uno strumento che già esiste ed è contenuto nel D. Lgs. 231/2001. L’articolo 17 di tale decreto infatti, dispone che prima del dell’apertura del procedimento di primo grado, l’ente che abbia commesso il reato possa evitare le sanzioni interdittive adottando varie soluzioni: costruendo un modello organizzativo che sia in grado di eliminare le carenze organizzative che hanno condotto alla commissione dell’illecito, rendendo disponibile il profitto illecitamente conseguito e risarcendo il danno o almeno rimuovendone le conseguenze dannose.

Inoltre secondo il DDL “Terra Mia”, l’organo accertatore dovrebbe indicare all’ente che ha commesso l’illecito ambientale, i rimedi organizzativi volti ad eliminare quella carenza che ha condotto all’integrazione della fattispecie di reato. Anche su questo punto la soluzione proposta dal legislatore non sembra convincere, perché il D. Lgs. 231/2001 non prevede la tipologia e le caratteristiche dei modelli di organizzazione che gli enti devono adottare per non incorrere nella responsabilità amministrativa, lasciandoli così liberi di scegliere e costruire il modello più adatto alle proprie esigenze. In questo modo invece, vi sarebbe il rischio che un modello per così dire “imposto dall’alto”, possa risultare troppo costoso e avulso dalle esigenze dell’ente.

Le misure di tipo rimediale previste dal DDL sembrano perciò poco efficaci, ed anzi in grado di far sorgere nuovi problemi piuttosto che risolvere quelli preesistenti. La soluzione che appare più utile al fine di risolvere i suddetti problemi, sembrerebbe quella di abbandonare una logica di imposizione dall’alto ed aderire invece ad una logica di cooperazione fra l’ente e l’organo accertatore. A tal fine andrebbero perciò incentivate le operazioni di riparazione del danno ambientale, magari prevedendo una vera e propria causa di non punibilità per l’ente che si adoperi in attività di ripristino e sia imputabile solo per colpa e non per dolo.

Per quanto riguarda la normativa antimafia, anche qui il DDL in esame non sembra cogliere il nocciolo della questione, andando a creare più problemi di quanti preveda risolverne. La riforma infatti vorrebbe applicare delle specifiche misure preventive antimafia, sia a quei soggetti che commettano reati che “offendono o mettono in pericolo l’ambiente”, sia a coloro che risultino indiziati di alcune delle fattispecie contenute nel Titolo VI-bis del nostro codice penale. Proprio su questo ultimo punto i problemi sembrano sorgere in relazione all’articolo 452-quaterdecies, che punisce l’attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti. Infatti nelle intenzioni del legislatore, contenute nella relazione che illustra il DDL, le misure preventive dovranno essere applicate anche ai soggetti che siano indiziati di aver commesso il fatto di cui all’articolo 452-quaterdecies, che siano strutturati in forma associativa e operino al di fuori di un ambito delinquenziale.

Il pericolo a questo punto è di diffondere una cultura del sospetto, in cui anche quelle società che abbiano occasionalmente commesso il reato previsto dal suddetto articolo e non facciano parte della cosiddetta criminalità organizzata, vengano ad essere soggette all’applicazione di misure antimafia, basate sulla prova indiziaria, con il rischio di compromettere più del necessario l’immagine pubblica dell’impresa colpita.

In conclusione quindi il DDL “Terra Mia” non pare essere in grado di garantire quella svolta, da più parti auspicata, di rafforzamento della tutela ambientale. Sembrerebbe invece creare una serie di problemi di difficile soluzione.

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