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La prevenzione e la riparazione del danno ambientale nel diritto europeo sancito dalla direttiva 2004/35/CE1 si attuano alla tregua del principio fondamentale che l’operatore, la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno, sarà considerato finanziariamente responsabile. In breve: “Chi inquina paga”.
La stessa direttiva riconosce, tuttavia, limiti all’applicabilità del rimedio della responsabilità civile: onde utilizzare tale strumento operativo, si richiede che il danno ambientale sia concreto e quantificabile, che i responsabili siano individuabili e la possibilità di accertare il nesso di causalità tra il danno e l’attività del responsabile2. Il paradigma della responsabilità civile non si adatta, pertanto, all’inquinamento a carattere diffuso e generale o nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi ad atti o omissioni di taluni singoli soggetti (cioè i casi di inquinamento non imputabili ad una singola origine o così risalenti nel tempo da non permettere l’identificazione del responsabile.
La normativa di uno Stato membro può, allora, discrezionalmente prevedere che l’autorità competente abbia la facoltà di imporre misure di riparazione del danno ambientale, presumendo l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inquinamento accertato e le attività del singolo o dei diversi operatori in base alla vicinanza degli impianti3. Per poterne presumere l’esistenza l’autorità competente deve disporre di indizi plausibili, in grado di dar fondamento alla sua presunzione (quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività).
Sul piano del diritto interno gli articoli 242, comma 1 e 244, c. 2 del D.Lgs n. 152/06 che, riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza (d’emergenza o definitiva), di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell’inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
Si tratta della regola del processo civile4 del “più probabile che non”5.
Un diverso filone si oppone, invece, all’applicabilità del criterio della preponderanza dell’evidenza, reclamando un accertamento più rigoroso che implichi un’adeguata istruttoria procedimentale e che si traduca nella ricerca di prove certe e inequivoche. L’accertamento non può basarsi su mere presunzioni, ma si esige la prova “al di là di ogni ragionevole dubbio”6. È il criterio del processo penale7 .
Il Ministero dell’Ambiente con nota n. 1495 del 23 gennaio 2018 ha diffuso una serie di chiarimenti relativamente agli obblighi del proprietario del terreno contaminato che non sia responsabile della contaminazione propendendo per la regola probatoria del “più probabile che non”.
In conclusione, l’orientamento ufficiale propende per la regola del “più probabile che non”, ammettendo il ricorso ad indici presuntivi che fondino l’affermazione di responsabilità.